A TU PER TU CON VLADO PETKOVIC

Il Corriere dello Sport ci regala una bella intervista con il Dottor Petkovic, tecnico che con le sue idee ha portato la Lazio in testa alla classifica. Eccone alcuni stralci :
Dove può arrivare questa Lazio e che programmi ha Petkovic non solo stagionali ma a lungo termine?
«E' stato importante fare questi risultati perché eravamo all’inizio. Dopo tanto scetticismo ci voleva positività per sviluppare il gruppo, confermare sul campo le idee e il lavoro fatto in questi primi due mesi e mezzo. I risultati servono per certificare che ha avuto senso e che abbiamo imboccato una direzione giusta. La Lazio ha ancora dei margini di miglioramento, dopo la sosta avremo tante partite e la squadra potrebbe incontrare delle difficoltà, ma proprio questo periodo che affronteremo può aiutarci a crescere ancora, creando una squadra più solida e convinta dei propri mezzi».

Non tutti la conoscono. E un allenatore nuovo che ha avuto un impatto positivo con il campionato italiano. Si può descrivere? Lei Petkovic che persona si sente di essere?
«Penso di essere rimasto quello che sono stato da sempre. Sono una persona umile, ma anche ambiziosa, che lavora tanto per ottenere successo. Nel 1987 sono partito da Sarajevo, dove avevo fatto tutta la trafila nelle giovanili, cinque anni da calciatore professionista, ho vinto nell'85 il campionato jugoslavo. Sono arrivato come un giovane calciatore in Svizzera, all’epoca erano consentiti soltanto due stranieri per squadra. C’è stato bisogno di lottare tanto, di fare gavetta giorno per giorno per rimanere a certi livelli. Lottare sempre mi ha aiutato in carriera. Senza lotta, senza convinzione, con il bicchiere mezzo pieno non si arriva da nessuna parte. Sono orgoglioso perché posso dire di non aver mai avuto alcuna spinta. Sono arrivato da solo, con i miei mezzi, facendo gavetta sono arrivato a questi livelli».


Ha lavorato anche alla Caritas. In cosa consisteva il suo impegno?
«Dopo una carriera lunga 17 anni come calciatore professionista, ho avuto un periodo di 7 anni dove non ero sicuro in che direzione dovevo andare. Ho frequentato la scuola per diventare allenatore, ho lavorato, ho fatto anche lallenatore-giocatore. E stato un periodo intenso. Per due anni ho fatto il responsabile e accompagnavo le persone che si occupavano delle pulizie. Quel mestiere mi ha insegnato tanto e mi ha portato a diventare insegnante di formazione per gli adulti nelle scuole alberghiere. Sono entrato nel mondo dell’insegnamento, ho iniziato a lavorare con i disoccupati. Per cinque anni e mezzo alla Caritas mi occupavo di persone con reddito basso e grandi difficoltà. Ero di aiuto a persone che avevano anche altre dipendenze. Ho fatto questo lavoro ma nello stesso tempo sono entrato nel mondo del calcio vero come allenatore. Negli ultimi due anni in cui lavoravo alla Caritas allenavo il Bellinzona. Abbiamo ottenuto una promozione in Super League (dalla B alla A svizzera) e siamo arrivati alla finale di Coppa, persa con il Basilea».

Porta tutte queste esperienze nello spogliatoio e quando dialoga con i suoi giocatori?
«Ci sono delle analogie, ci sono aspetti che possono essere di aiuto o diventare un bel metodo per convincere e far capire ai ragazzi che hanno altre doti e altre possibilità per affrontare la vita futura. Certi pensieri, certe esperienze mi aiutano ad affrontare i discorsi con i calciatori. In precedenza erano piccoli calciatori, ora anche con star o calciatori affermati. Anche loro a volte devono essere coccolati, in altre occasioni bisogna andare con il bastone. La filosofia del bastone e della carota è sempre valida servono tutte e due».

Sarajevo è una delle città più multietniche d’Europa, l’ha aiutata nel suo caso? «Sicuramente sì. Ho avuto un’educazione aperta, e così non ho avuto problemi a uscire da casa e confrontarmi con il mondo».

C’era troppa diffidenza all’inizio e forse troppo entusiasmo oggi. Cosa pensa dei complimenti del ct Prandelli, di Reja e di Simeone arrivati negli ultimi giorni?
«Fa piacere sentire più pareri positivi, li ringrazio. Ora entusiasmo e prima diffidenza? Penso di sì, come ho detto dopo l’ultima partita, l’euforia serve e va bene per i tifosi. Io per primo, la società, i giocatori siamo coscienti e sappiamo che arriveranno anche dei momenti difficili. Bisogna crescere pian pianino, sempre pretendendo di più. Oggi siamo al 90-95 per cento, io voglio il 110 e quando lo ottengo da me stesso, pretendo di arrivare al 115. Ho sempre avuto queste idee. Continuerò a lavorare e pretendere da me e dalla Lazio».

Cosa vorrebbe portare di nuovo Petkovic nel calcio italiano?
«Non sono arrivato qui a insegnare calcio. Voglio portare la mia squadra più in alto, il lavoro si valuterà nel tempo. Se qualcuno vorrà prendere le mie idee, mi farà piacere. Ma io non sono un profeta in Italia, sono abbastanza umile, nel calcio c'è la dipendenza dai risultati».

Dopo un’estate difficile, Petkovic ha fatto un passo indietro e un passo avanti lo ha fatto la squadra. Queste sono state le sue parole. Cosa ha portato di nuovo e cosa ha preso di buono da Reja per combinare il mix?
«Ho detto ai ragazzi, prima dell'esordio di Bergamo, che certi valori dell’anno scorso e il lavoro che Reja aveva fatto, sono riconosciuti non solo da me, ma da tutto l’ambiente. E che certe cose buone volevo tenerle, altrimenti non si può arrivare al traguardo. La squadra aveva già delle certezze, ho cercato di associarle alle mie idee, così è nato questo felice impatto in campionato. Ho parlato di passo indietro e passo in avanti perché è importante essere realisti. Voglio essere realista e ottimista. Bisogna mischiare queste cose».

Ha studiato calcio. Quali sono gli allenatori che ha considerato suoi modelli?
«Da piccolo ho girato con mio padre, così ho assimilato principi e pensieri. Guardavo gli altri come allenavano. Sicuramente le idee che ha avuto Wenger con Arsenal mi sono piaciute tanto. Non ho mai copiato, mischiare le cose e le idee, cercavo di rubare da diversi allenatori tutto quello che trovavo di buono per poter sviluppare le mie idee. Per esempio la concretezza di Fabio Capello mi è sempre piaciuta. Mischiando tutto si può arrivare ad un’idea principale, ma poi si cambia. Da giocatore trascrivevo tutti gli esercizi dei miei ex allenatori, all’inizio della carriera di tecnico li usavo tutti, poi ho cambiato anche io il modo di lavorare. All’inizio gestivo tutto da solo, mi aiutava il preparatore dei portieri, il resto facevo tutto io. Un po’ alla volta ho iniziato a integrare altri componenti nello staff. E stata una crescita costante. Oggi facciamo un eccellente lavoro. Ci aggiorniamo in continuazione. Ricevo tante cose dalla Germania e dall’Italia. Ho la voglia di portare sempre novità dentro il mio lavoro. Cerco di modificarlo sempre. Cerco di ascoltare, di leggere, di trovare dei commenti che sono giusti».

E' arrivato da pochi mesi. Ci racconta come vive a Roma? «Avevo scoperto cose interessanti già in passato. Sono venuto qui a Roma con la famiglia e alcuni amici dopo la promozione con il Bellinzona, l’albergo si chiamava Lazio... Ho trascorso in città cinque giorni, ogni giorno facevo una passeggiata lunga dieci chilometri. Sono stato alla Fontana di Trevi e ho buttato una moneta con la speranza di tornare a Roma. Sinora ho avuto poco tempo per girare. Mi ricordo in quella vacanza di aver visto diversi ristoranti. Sapevo che si mangia e si vive bene. Nel primo periodo mi sono concentrato di più sul calcio. Adesso ho trovato casa, avendo mezza giornata libera mi capita di andare con la famiglia a Fregene per fare un bagno e mangiare al mare. Serve questo equilibrio, non si può vivere solo per il calcio. Ho bisogno anche di staccare e vivere la famiglia. L’atmosfera romana si vede, si sente ogni giorno, quando vai a prendere il pane o la frutta. Anche all’inizio, nonostante ci fossero scetticismo e sensazioni negative, avvertivo calore».

Parliamo di calcio. Si parla di difesa a tre oppure di tridente. Qual è l’idea di Petkovic? «Cerco una metamorfosi continua, è importante convincere i giocatori e l’ambiente che il modulo è quello giusto. Ma ho sempre detto che il modulo conta poco, contano i principi. I giocatori devono sapere come comportarsi in fase difensiva, anche gli altri due o tre che sono in linea con l’azione. Bisogna avere certe idee, dare possibilità e libertà di sviluppare l’estro in fase offensiva. Vi svelo una curiosità. Quindici anni fa ho cominciato con la difesa a tre, sei o sette anni fa con lo Young Boys sono finito sulla croce perché facevo il 3-4-3. Era diventato il tema principale sui giornali svizzeri. In quel periodo ho imparato a non parlare troppo dei sistemi e dei moduli, ma solo dei principi di gioco».

Come ha convinto Hernanes a tornare centrocampista e quale vantaggio porta un campione come Klose? «Non ho tentato di convincere Hernanes. Hernanes ha dimostrato subito le sue qualità, è arrivato a un buon punto, ma può migliorare ancora. Non è ancora al top in fase difensiva e in fase offensiva deve essere più imprevedibile, può crescere. Mi fa piacere che ora si vedano dei progressi, ma può dare di più. Klose è un campione, non deve dimostrarlo. E’ un trascinatore, un campione anche fuori dal campo. Oggi non è facile trovare dei leader, Klose è uno dei pochi attaccanti in circolazione che sanno essere anche leader. Lo dimostra sul campo e lo trasmette agli altri».

Reja venne penalizzato dagli infortuni. Come ha cambiato la preparazione atletica? «Niente di particolare. Ho lavorato come gli anni scorsi insieme con Paolo Rongoni, sentendo lo staff medico, gli stessi giocatori su certe difficoltà. Abbiamo fatto tanta prevenzione a tutti i livelli. Importante è la consapevolezza del giocatore: quando sente di essere arrivato al limite deve dirlo senza avere paura di non giocare, altrimenti rischia di farsi male. Ora stiamo recuperando gli ultimi infortunati, anche Brocchi presto ci sarà. Sono contento per come stanno andando le cose».

Come è nato il feeling con Rongoni, preparatore apprezzatissimo dalla squadra? «Ha lavorato a Lugano con Morinini, poi è stato al Servette prima di trasferirsi in Francia per sei anni, Lo conosceva Jesse Fioranelli, aveva avuto contatti con lui. Quando sono andato a lavorare in Turchia, l’ho chiamato. C’è stato un periodo di adattamento, io volevo fare condizione con la palla, abbiamo trovato nel tempo un certo equilibrio».

Ci può spiegare in cosa consiste il lavoro dell’analista Jesse Fioranelli? Fate vedere i video ai calciatori? «Jesse conosce le mie idee, le condivide, è pronto a combattere per le mie idee. Sviluppiamo in pre-partita l’analisi dell’avversario, nel post-partita ci sono le analisi individuali sui nostri giocatori, per capire cosa è stato fatto in modo positivo e cosa in modo negativo, ma anche cosa potrebbe servire. Realizziamo dei piccoli video che possono ancora di più convincere i giocatori per migliorare certe doti. Abbiamo già fatto qualcosa, ora però dobbiamo stare attenti e allentare, non possiamo sovraccaricare la testa dei giocatori. Si devono concentrare sulla squadra, arriva un periodo con tantissime partite, non si deve parlare tanto. Bisogna velocizzare il recupero mentale, si farà solo lo studio pre-partita per conoscere pregi e difetti degli avversari».

Rossi festeggiò una vittoria nel derby tuffandosi al Fontanone del Gianicolo. Petkovic cosa sarebbe pronto a fare pur di vincere con Zeman e diventare Re di Roma? «Non voglio diventare re di Roma vincendo un derby. Se riusciremo a vincere il derby, dedicherò il successo a questa gente che ci sta dietro e ci accompagna ogni giorno e che continuerà a farlo prima e dopo il derby. Vincerlo sarebbe molto importante e ne sarei felice per i tifosi. Dal primo giorno in cui sono arrivato, sento parlare solo del derby e di tutte queste cose. Io mi concentro su ogni partita, per vincerla e per cercare di dominarla». 

 FORCING - Registrazione N° 383 del 7 ottobre 2010 

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